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Greenwashing o valore reale? L’ESG che rafforza (o rovina) la reputazione

08/10/2025
Redazione

Negli ultimi anni la sigla ESG – Environmental, Social, Governance – è entrata con prepotenza nel linguaggio delle imprese, degli investitori e dei consumatori. Non si tratta di una moda passeggera, ma di un insieme di principi che stanno ridisegnando le regole del fare impresa in Europa e nel mondo. L’attenzione all’impatto ambientale, alle politiche sociali e alla trasparenza della governance aziendale è ormai percepita come un dovere, oltre che come un’opportunità di crescita e di posizionamento sul mercato. 

 

Eppure, proprio l’importanza crescente dell’ESG porta con sé un rischio: quello del greenwashing, cioè la tentazione di presentarsi come sostenibili senza esserlo davvero. Un fenomeno che può trasformarsi in un boomerang, capace di distruggere in pochi mesi una reputazione costruita in anni di lavoro. 

 

Il fascino (e il pericolo) del greenwashing 

Greenwashing significa letteralmente “darsi una mano di verde”. È la pratica con cui un’impresa comunica un impegno ambientale o sociale che in realtà è minimo, marginale o addirittura inesistente. Può trattarsi di campagne pubblicitarie che enfatizzano un dettaglio positivo ignorando l’impatto complessivo dell’attività, di bilanci di sostenibilità costruiti con criteri poco trasparenti, oppure di slogan che non trovano riscontro nelle scelte operative. 

Il problema non è soltanto etico. È anche e soprattutto un problema di rischio reputazionale. Oggi i consumatori sono sempre più attenti, i media indagano con rapidità e i social network amplificano qualunque incoerenza. Quando viene smascherata una comunicazione ingannevole, la perdita di fiducia è immediata e difficile da recuperare. Non basta più raccontare di aver piantato qualche albero o di aver ridotto l’uso di plastica in ufficio: se il core business continua a produrre impatti ambientali o sociali negativi, il pubblico non perdona. 

Esempi noti arrivano da settori come la moda fast fashion, l’energia o l’alimentare, dove alcune campagne di “sostenibilità di facciata” sono state contestate da associazioni e consumatori. Il risultato? Un danno d’immagine, un calo delle vendite e, nei casi più gravi, indagini delle autorità di vigilanza. 

 

L’ESG come cultura, non come reparto marketing 

Se il greenwashing rappresenta la scorciatoia pericolosa, l’unica vera alternativa è trasformare l’ESG in una cultura aziendale diffusa, che non si limita a “fare comunicazione” ma diventa parte del modo stesso di fare impresa. 

Questo significa che l’impegno ESG non può restare confinato all’ufficio marketing o a un documento annuale. Deve partire dal vertice e coinvolgere il board e il management. Quando le decisioni strategiche – dalle politiche di investimento alla scelta dei fornitori – tengono conto dei criteri ESG, l’azienda costruisce credibilità autentica. E questa credibilità si riflette naturalmente nella comunicazione, che smette di essere un artificio e diventa un racconto di ciò che si fa davvero. 

Un approccio culturale all’ESG porta anche a un effetto trasversale: ogni funzione aziendale, dal reparto acquisti alle risorse umane, viene chiamata a contribuire con azioni concrete. Significa selezionare partner e fornitori che rispettino standard etici, ridurre gli sprechi energetici e materiali nei processi produttivi, favorire la parità di genere e l’inclusione nei team, adottare modelli di governance trasparenti. 

 

Perché la coerenza è l’unico antidoto 

Alla base di tutto c’è la parola “coerenza”. La distanza tra ciò che l’impresa dichiara e ciò che realmente fa è la misura con cui i pubblici giudicano la sua serietà. Una piccola incoerenza può essere tollerata, ma quando diventa sistematica genera sfiducia e alimenta l’idea che l’ESG sia solo una facciata. 

La coerenza, invece, crea valore. Una comunicazione trasparente, basata su dati verificabili, rafforza la reputazione. I consumatori sono più propensi a premiare i brand che dimostrano autenticità, gli investitori si fidano di più, i talenti qualificati vedono nell’azienda un datore di lavoro credibile. In un mercato sempre più competitivo, questa fiducia si traduce in vantaggio competitivo e resilienza. 

 

Oltre l’obbligo normativo 

Va ricordato che l’Europa si sta muovendo in maniera sempre più stringente sul tema. Con la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), le grandi imprese – e progressivamente anche le PMI – saranno obbligate a rendicontare in modo preciso e comparabile le proprie performance ESG. Ciò significa che gli spazi per il greenwashing si ridurranno drasticamente, perché le informazioni dovranno essere certificate e confrontabili. 

Ma l’ESG non può ridursi a un mero adempimento normativo. Le imprese che sapranno anticipare questo cambiamento e integrare i principi di sostenibilità nella propria cultura aziendale avranno un vantaggio evidente. Saranno più preparate ad affrontare i controlli, ma soprattutto godranno della fiducia di un mercato che premia la serietà e punisce l’improvvisazione. 

 

La domanda che ogni azienda deve porsi è semplice: stiamo comunicando sostenibilità o stiamo praticando sostenibilità? La risposta farà la differenza tra un posizionamento fragile e una reputazione solida, destinata a durare. 

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